Raul Vaneigem

Posted: Giugno 12th, 2012 | Author: | Filed under: anthropos, au-delà, Révolution | Commenti disabilitati su Raul Vaneigem

“Quando la pigrizia non nutrirà altro che il desiderio di soddisfarsi, entreremo in una civiltà in cui l’uomo non sarà più il prodotto di un lavoro che produce il disumano”. Propongo qui un lungo estratto da “Elogio della pigrizia affinata” di Raoul Vaneigem (Nautilus, Torino, 1998). Un prezioso antidoto alla mistica del lavoro, il vero oppio dei popoli, soprattutto oggi. Perché tra i tanti effetti collaterali devastanti della crisi c’è anche quello, assolutamente non secondario, di costringerci a invocare per disperazione la schiavitù del lavoro fino a farci dimenticare l’utopia necessaria della sua abolizione.

L’ epoca in cui le bestie parlavano, gli alberi prodi­gavano consigli di saggezza, gli oggetti stessi si ani­mavano, resta al centro del reale nel bambino. Il pigro ne scopre la meraviglia nel vuoto di un’indo­lenza che gli evoca confusamente l’esistenza prena­tale, quando l’universo originario, il ventre della madre, dispensa amore, nutrimento e tenerezza. “Quali funeste condizioni, si domanda, ci impedisco­no di restituire alla natura la sua vocazione di madre nutrice?”

Per quanto la razionalità lucrativa del lavoro voglia considerare la questione come inesistente, il pigro sa che, nella felice disposizione che lo separa dal mondo affarista ed indaffarato, la sua fantasticheria non è sprovvista di senso e di potenza. Tra lui e l’ambiente circostante la spensieratezza contemplativa basta a tessere la rete di sottili affi­nità: percepisce mille presenze in mezzo all’erba, tra le foglie, in una nuvola, in un profumo, su un muro, un mobile, una pietra. Improvviso lo coglie il senti­mento di essere collegato alla terra attraverso le inti­me nervature della vita.

Si trova nell’unità con il vivente, nella religio, di cui la religione è l’inversione, lei che incatena la terra al cielo ed il corpo alle spiegazioni dello spirito divino. Al contrario del mistico, esule dai suoi sensi per disprezzo di sé, l’ozioso restituisce la materialità della vita – la sola che ci sia – all’universo da cui essa si crea: l’aria, il fuoco, l’acqua, la terra, il minerale, il vegetale, l’animale e l’umano, che da tutti ha eredi­tato la sua specificità creatrice. Sotto l’apparente languore del sogno si sveglia una coscienza che il martellamento quotidiano del lavoro esclude dalla sua realtà redditizia. Essa non ha nulla di un animismo, ampollosità religiosa dove lo spirito tenta di appropriarsi degli elementi della terra come se non bastassero a se stessi. Essa emana semplice­mente dalla vitalità di cui il corpo in riposo si riap­propria.

Perché la pigrizia abbia accesso alla sua specificità non basta che essa si rifiuti alla volontà onnipresen­te del lavoro, bisogna che essa esista per se stessa e per mezzo di sé. Bisogna che il corpo, di cui costi­tuisce uno dei privilegi, si riconquisti come territorio dei desideri, allo stesso modo in cui lo percepiscono gli amanti nel momento dell’amore. Luogo e momento dei desideri, tale si rivendica que­sta pigrizia conforme al cuore assolutamente oppo­sta alla pigrizia del cuore, alla quale traffica per ridurla l’ordinario commercio sociale. La dolcezza del prato, la serenità del letto si popolano di una folla di desideri nati per la felicità e che gli obblighi rimuovevano, storpiavano, decimavano, travestivano di significati mortiferi.

Il paese di Cuccagna si erige in progetto nella pro­posizione: tutto arriva alla portata di coloro che imparano a desiderare senza fine. “Fai ciò che vuoi” è una pianta etica che non domanda altro che di cre­scere ed imbellirsi. La crudeltà di condizioni insop­portabili, e che ciononostante noi tolleriamo, ci ingiunge di trascurarla come se, dall’urgenza di non essere noi stessi, ci fosse richiesto di non apparte­nerci mai.

La pigrizia è godimento di sé oppure non esiste. Non abbiate alcuna speranza che vi sia accordata dai vostri signori o dai loro dei. Ci si arriva come il bam­bino, per una naturale inclinazione a cercare il piace­re e a mettere da parte ciò che lo contraria. È una semplicità che l’età adulta eccelle nel complicare. La si finisca dunque con la confusione che lega alla pigrizia del corpo il rammollimento mentale chiama­to pigrizia dello spirito, come se lo spirito non fosse la forma alienata della coscienza del corpo. L’intelligenza di sé che esige la pigrizia non è altro che l’intelligenza dei desideri di cui il microcosmo corporeo ha bisogno per affrancarsi dal lavoro che lo impedisce da secoli.

Perché nella folla di propositi ed auguri che invado­no il pigro finalmente risoluto a non esistere che per se stesso, andate a sapere quel che si intrufola! È tale la forza dei desideri quando si ritrovano per cosi dire allo stato libero che sono vinti dall’illusione di poter cambiare il mondo in loro favore sul momento. La vecchia magia ossessiona più di quan­to si creda le pieghe della coscienza.

“È un’antichissima credenza – scrive Campbel Bonner – che una persona istruita dei modi di proce­dere possa mettere in moto forze misteriose capaci di influenzare la volontà altrui e di sottomettere le sue emozioni ai desideri dell’operatore. Queste forze possono essere attivate con delle parole, delle ceri­monie compiute seguendo delle regole, degli oggetti investiti di una potenza decretata magica.” E Jacob Bòhme, più sottilmente: “La magia è la madre del­l’essere di tutti gli esseri poiché essa si fa da sola e consiste nel desiderio. La vera magia non è un esse­re, è il desiderio, lo spirito dell’ essere.” (Erklàrung von sechs Punkten)

Il XIII secolo ha conservato traccia di questa “pigri­zia che fa girare i mulini” come l’evoca Georges Schéhadé. Una setta vi sostiene in effetti: “Non biso­gna mai lavorare con le proprie mani, ma pregare senza posa; e se gli uomini pregano in tal guisa, la terra porterà senza essere coltivata più frutti che se lo fosse.” (H. Grundmann Religiose Bewegungen in Mittelalter, Hildesheim, 1961).

Se l’operazione non ha lasciato nella storia una prova tangibile della sua efficacia, conviene meno incriminare l’incompetenza del Dio al quale gli oran­ti si rivolgevano o qualche maniera viziosa di proce­dere che il ricorso alla preghiera, perché porsi alla dipendenza di altri per accedere ad un’indipendenza ardentemente desiderata, vuol dire andare contro la propria volontà e fare poca attenzione alle proprie aspirazioni.

L’universo del desiderio formicola di trappole di questo tipo. Ci si mescolano troppe sottomissioni, divieti, rimozioni, automatismi per poter fare a meno della massima vigilanza.

È noto l’apologo indiano: un uomo si era coricato all’ombra di un albero reputato per il suo potere magico. Sembrandogli il suolo poco soffice, desi­derò sdraiarsi in maniera più voluttuosa ed un letto sontuoso apparve.

Gli venne in seguito la voglia di un pasto copioso ed una tavola apparve, guarnita dei piatti più prelibati. “La mia felicità sarebbe completa, pensava, se aves­si al mio fianco una giovinetta graziosa e pronta a soddisfare i miei desideri”. La ragazza arrivò imme­diatamente rispondendo al suo amore. Poco abituato tuttavia ad una tale costanza nella feli­cità, non seppe trattenersi dall’aver un timore irra­gionevole e temendo di perdere in un istante una for­tuna così perfetta, si immaginò che una tigre uscis­se dal bosco. La tigre uscì e gli spezzò il collo. Un desiderio può nasconderne un altro di segno contrario.

Alla pigrizia il compito di imparare che non deve temere nulla, soprattutto da se stessa. Quanti sforzi per appartenersi senza riserve. Non è che ci vogliano giri tortuosi, ma il più semplice non si consegna agevolmente agli spiriti tormentati. L’infanzia dell’arte non si raggiunge che attraverso l’arte di ridiventare bambini. Lo snaturamento ha fatto grandi progressi, affermava un pigro godendo­si “La lucertola”, la canzone di Bruant, con il suo immortale “non posso lavorare, non ho mai impara­to”.

Aggiungeva: “Ci hanno talmente messo nella disposizione di lavorare che non far niente esige oggi un addestramento.”

All’ora della disoccupazione crescente, insegnare la pigrizia avrebbe di che sedurre se non fosse compi­to di ciascuno coltivare senza l’aiuto degli altri una scienza così delicata, particolare e personale. Nessun altro può assicurare la propria felicità (e con più facilità la propria sventura) se non lo stesso sog­getto in questione. Vale per i desideri ciò che vale per la materia prima da cui l’alchimista cerca di rica­vare la pietra filosofale. Costituiscono un loro pro­prio fondo e non se ne può estrarre che ciò che vi si trova. In contropartita tutto sta nell’affinamento. La pigrizia allo stato bruto è come una noce man­giata senza prima romperla. Anche se la si sceglie libera dalle ordinarie corruzioni del lavoro, dal senso di colpa, dallo sfogo e dalla servitù, bisogna ancora degustarla per trarne più grande piacere. Renderla al movimento naturale che la farà diventare ciò che essa è: un momento del godimento di sé, una crea­zione, insomma.

L’assuefazione alle felicità laboriose, messe in ombra più che sottolineate dall’effimero e rubate in fretta e furia, ci ha spogliato dell’esperienza dello sforzo e della grazia. I piaceri, in ciò che hanno di autentico, non sono né il frutto di un capriccio del caso o degli dei, né la ricompensa di un lavoro di cui non sarebbero allora che il respiro trafelato. Si danno tali e quali noi li prendiamo. La gioia di cui ci riempiono è quella con cui noi li avviciniamo. Potrebbe essere questa la grande opera di cui l’al­chimista ricominciava ogni giorno la ricerca paziente ed appassionata: un’ostinazione del desiderio a spo­gliarsi di ciò che lo corrompe, ad affinarsi senza posa fino ad una grazia che trasmuta in oro vivifi­cante il piombo della miseria, della morte e della noia.

Quando la pigrizia non nutrirà altro che il desiderio di soddisfarsi, entreremo in una civiltà in cui l’uomo non sarà più il prodotto di un lavoro che produce il disumano.

Raoul Vaneigem


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