Carlo Sini
Posted: Febbraio 14th, 2013 | Author: agaragar | Filed under: anthropos, epistemes & società, philosophia, post-filosofia, vita quotidiana | 9 Comments »di ANTONIO GNOLI
“ARRENDIAMOCI, NON POSSIAMO CONOSCERE LA REALTÀ”.
Parla il filosofo Carlo Sini mentre viene ripubblicata la sua opera che mette in discussione il pensiero occidentale.
Ho qualche dubbio che i filosofi – come si sente dire in giro – conoscano i
sentieri della felicità e ci accompagnino per mano lungo quegli ameni
percorsi. Ma un tale sospetto non deve indurre a gettarci tra le braccia dei
torturatori del concetto, dei paranoici del pensiero, attenti a che nulla
del reale sfugga alla loro occhiuta attenzione. La filosofia ha molto di
problematico, di sfuggente, soprattutto oggi in cui le certezze sono messe
in discussione alla radice. E a pensarlo, fra gli altri, con un percorso
molto originale, è Carlo Sini che sta per compiere 80 anni. Allievo di
Emanuele Barié ed Enzo Paci, per decenni professore di teoretica alla
cattedra di Milano, Sini sta pubblicando per Jaca Book la sua intera opera.
Dove ha sparso i suoi interessi: nel mondo antico, che è all’origine –
almeno in Occidente – del passaggio denso di conseguenze dall’oralità alla
scrittura; in quello moderno sovrastato da Spinoza ed Hegel e infine in
quello contemporaneo dal quale affiorano i nomi di Husserl, Peirce e
Wittgenstein.
«È un quadro veritiero, fatalmente approssimativo quello che lei riassume.
Ma in fondo l’ultima parola non è mai la nostra. Diceva Peirce: il
significato della mia vita è affidato agli altri».
Ma gli altri possono avere molti pregiudizi.
«Il che prova che la verità non è mai qualcosa di definitivo, siamo sempre
in errore. In cammino. Non a caso io parlo di “transito della verità”».
A nessuno piace l’errore. La filosofia greca e poi il cristianesimo ci hanno
insegnato a diffidare dell’errore e del peccato, suggerendo i modi per
evitarli.
«C’è in queste filosofie o visioni del mondo un’idea di perfezione che ha
provocato danni e fraintendimenti. E tutto ciò è nato dalla pretesa di
affidare alla scrittura il ruolo di cardine su cui l’Occidente ha fondato il
proprio sapere».
Prima i saperi si costituivano oralmente. Poi arriva la scrittura. Tutto
diventa più semplice. Perché diffidarne?
«Non è una diffidenza, ma la consapevolezza che l’introduzione della
scrittura modifica la nostra percezione del mondo. Il Logos, di cui parlano
i greci, non potrebbe sussistere senza la scrittura».
Perché?
«Per il semplice motivo che ogni scrittura ha un supporto che è fuori dal
corpo di chi parla. La scrittura – diversamente dall’oralità – ci pone di
fronte a un sapere oggettivo che va interpretato. Quando è la voce a
trasmettere il sapere, non c’è separazione o distanza tra ciò che diciamo e
il mondo che lo accoglie e di cui facciamo parte. Nella scrittura invece va
ravvisata quella radice oggettiva che si svilupperà con la scienza».
Questo è un passaggio ulteriore.
«È una continuità. Senza la scrittura alfabetica e matematica – che sono
scritture per tutti – non avremmo avuto l’universale e quindi la scienza.
L’universale – che i greci hanno chiamato Logos – ha determinato il corso
del sapere occidentale. È stata la nostra forza, la nostra potenza, ma anche
la nostra superstizione e il nostro equivoco».
Capisco la potenza, ma perché superstizione ed equivoco?
«Per la semplice ragione che sia la scienza che il senso comune pensano che
ci sia un mondo fuori di noi che possiamo conoscere».
Effettivamente è così: da un lato la realtà dall’altro noi che l’avviciniamo
e la conosciamo. Se vuole, molto rozzamente, siamo in una delle tante
versioni del realismo.
«Posizione ingenua. Perché o noi facciamo parte di quella realtà oppure è
illusorio pensare di conoscerla».
Eppure, se non riuscissi a distinguermi dalla realtà esterna, allo stesso
modo, non potrei conoscerla.
«Obiezione giusta. Nel senso che noi siamo parte della realtà pur
distinguendoci da essa. Siamo parte della verità ma non siamo la verità».
Un bel paradosso. Allora cosa siamo?
«Siamo nella differenza del sapere, o meglio siamo in ciò che chiamo
“l’essere in errore”. Verità ed errore sono in qualche modo due facce della
stessa medaglia ».
Anche la scienza partecipa della verità e dell’errore. Ne fa esperienza, nel
senso che corregge continuamente l’errore.
«Il lavoro della scienza è meraviglioso, va bene così, ne beneficiamo tutti.
Sarebbe insensato rifiutare la scoperta di una cura contro il cancro o
condannare
un treno perché copre distanze lunghe in tempi sempre più brevi. Altra cosa
è l’idea che gli scienziati per lo più si fanno del loro lavoro. Qui prevale
quello che Husserl chiamava il pregiudizio “naturalistico”. Ossia il
riferimento ingenuo e inconsistente a un misterioso mondo che è “là fuori” e
a un ancor più misterioso “qui dentro”».
Lei, insomma, mette in discussione il modo tradizionale di concepire il
dentro e il fuori, il soggetto e l’oggetto, la realtà e la coscienza. Dove
collocherebbe tutto ciò?
«Nella vita che si svolge e che si traduce negli innumerevoli archivi
dell’accaduto, i quali ricompongono di continuo il passato in nuovi archivi
e mappe per il futuro».
Vedo che usa la parola “archivio”. Immagino che non sia solo il deposito
delle conoscenze al quale attingiamo.
«È qualcosa di più strategico, è il modo di venire alla luce della verità
pubblica».
I filosofi hanno a volte il vizio di rispondere a una complicazione con una
complicazione ulteriore. Cos’è la verità pubblica?
«È quella, per esempio, che in questo momento io e lei pratichiamo in questa
conversazione».
Una conversazione che al lettore potrà apparire troppo tecnica.
«Un margine di oscurità è preferibile a insulse certezze. E poi distinguerei
tra competenza e sapere, anche se tra loro sono connessi. Una competenza
analitica la posso apprendere anche da un computer opportunamente
programmato; il sapere in senso complessivo non può invece fare a meno del
coinvolgimento delle emozioni corporee profonde. Si tratta di creare
un’intesa condivisa, cioè anche pubblica o comune».
Ciò che è pubblico è anche esposto al fraintendimento, al rumore mediatico,
al sentire massificato.
«Che cosa sia stato e sia nel profondo il “secolo della masse” –
l’espressione deriva da Sorel – è ancora una domanda attuale. Non abbiamo un
pensiero all’altezza del problema, io credo. Che cosa significa fare
politica, fare cultura, e quindi fare anche filosofia, in un tempo
globalizzato, massificato, mercificato e via dicendo, non l’ha chiaro
nessuno. La fiumana trascina le nostre antiche barche, ormai senza governo».
Appellarsi al passato o alla tradizione?
«Mi sembra evidente che la nostra grande tradizione storico-culturale si è
formata in società così differenti dall’attuale che la pretesa di travasare
in essa i nostri contenuti e i nostri stili di pensiero si rivela fatalmente
utopica».
Propone una variante della filosofia della crisi?
«No, ma occorre prendere atto della crisi se la si vuole affrontare. Direi
perciò che l’evidente crisi del modello capitalistico va in parallelo con la
crisi di ciò che un tempo si considerava alta cultura. Il liberalismo
politico e il liberalismo economico sono falliti nei loro propositi
esattamente come la scuola pubblica e l’universale alfabetizzazione. Non
possiamo rinunciarvi perché non conosciamo modelli più efficienti o più
realistici, ma non ne deriviamo affatto quel benessere per tutti e quella
diffusa formazione critica e liberatrice che erano attesi».
Suggerisce la rassegnazione?
«Suggerisco la consapevolezza. Ogni civiltà è destinata a tramontare: “Della
civiltà non rimarrà che un cumulo di macerie e di cenere, ma sopra le ceneri
aleggerà lo spirito”, lo ha detto Wittgenstein. Ci troviamo in mezzo a un
grande sommovimento che ci sovrasta e ci inquieta. Il nostro compito è
rimettere in gioco la verità. Disincagliarla dal dogmatismo. Non conosco
modo migliore per riprendersi il futuro».
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